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Marzo

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Due stanze angolo cottura & ampio cratere 

vista parcheggio (affacciatevi pure):


recente realizzazione, una finestra aperta

sul Novecento (sentite come splende oggi il sole 


dell'avvenuto) e chi ha detto che l'odio è cieco,

anzi, l'odio spalanca occhi sui condomini, guardate,


ottima posizione al centro del bersaglio,

ben servito dai mezzi cingolati pesanti, polvere 


di calcina già posata sui soprammobili rotti,

e i vicini, non un sussurro, così ammodo


un silenzio che sveglierebbe un cimitero

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Cornicetta e data:

Babyn Jar, Kyiv, 1° marzo 2022 


alla Storia esplodono i timpani

bambini, non fatemi ripetere:


maestra, le betulle sanno

quando un giorno è un giorno di guerra?


arrivavano in fondo alla gola

e solo allora udivano le raffiche 


e il quaderno di scuola si tappa gli occhi

le penne sgocciolano nell'astuccio


ma è per colpire l'antenna tv

che la terra viene smossa di nuovo


Olena, attenta a quelle macchie

a minuti suona la campanella


ballate al ritmo dei timpani

pettirossi infilzati per la gola


come dentro il mortaio di Baba

la testa al sicuro nel sottobanco


oggi mi ero fatta la treccia, maestra

chi può torni a casa, ché fa buio


ho insegnato tutto quello che sapevo

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La democrazia delle lenticchie nella pentola
insegna che non sappiamo niente
di questo nel frattempo universo


sobbollendo al fuoco lento
del nostro locale scaldarci per poco
sballottati divisi rimestati dal cucchiaio di legno


scegli scegli un punto di vista
fra i due, massimo tre, concessi
come bambini: facciamo che questa era casa


che il teflon era terra che il coperchio cielo

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Il bassopiano sarmatico della notte
tirato sull'Europa dalla testa ai piedi,


la sistole circadiana dei caloriferi,
l'ultima playlist di soft piano music


to help you sleep: il dormiveglia commuta
in viaggio pompato a ritroso sui gasdotti


fino all'ipotetico nodo d'interscambio
(lampade ai vapori di sodio, sibilo


dei manometri, rete metallica
a contenere l'avanzata della steppa)


e accelera la fuga pazza da sé stesso.
È stata una giornata troppo lunga


anche per lo stupore di fronte ai grandi
rubinetti arrugginiti del benessere


comprato a caro prezzo. Non fa in tempo,
il dormiveglia fantasmatico, a scorgere


oltre il casotto in cui dormicchia
Alëša o Mitja su una poltrona girevole


nello sfarfallio azzurro d'uno schermo
la continua replica dell'attonita


realtà: la sterpaglia attorno
alle piazzole in ombra, gli animali


della notte e della pena assiderata,
le frange di vissuto ad infima


risoluzione, e sullo sfondo i lumi
del primo di centomila villaggi


fiochi, come inghiottiti da un abisso
o ad occhi chiusi. Il torpore non li coglie


e allora oltrepassa la flangia (gas
naturale della coscienza che si oppone


al proprio venir meno con un exploit
di illusione) e monta la corrente, su su,


verso i campi di Jamal e di Urengoj
alla sorgente del sapere. Da non credere


che anche in fondo alla corsa a perdifiato
le cose tacciano nella lingua di sempre


(ma ugualmente non perde dettaglio la texture
nell'allucinazione della tundra: è proprio


questa gettata di torba, questa
polla glaciale, questa particolare


bacca d'erica incisa da un insetto)
e la teoria di neutri singolari


continua sotto strati di geologia
nel C-C-C imperterrito della catena


alifatica che accende le caldaie
e alimenta la guerra. L'io del primo


sonno sfiata dall'ugello: eccolo,
purificato dalla risalita, lucido


d'idrocarburo, decompresso in aumento
di entropia anche il suo persistente


bisogno d'essere preso con… e finalmente
libero, blatera


di cultura e cause
e ricorsi storici e sangue


fra le righe di questo plissé
mal sforbiciato da un sarto


ubriaco: al cospetto del grande azzeratore
boreale, che non ha orecchie e giustamente


non ascolta. E allora il termine credibile
è il dito puntato su coordinate random,


l'omino-cursore di Google Maps in caduta
frenata sull'ultimo avamposto: cortile


post-sovietico, due file di finestre chiuse,
intonaco sfogliato, erba matta, lo strazio


di una tramonto che dura generazioni, la luce
accesa al primo piano: Ivan che dopo il turno


all'impianto di stoccaggio sfoglia un catalogo
stropicciato di macchine per la trivellazione,


il samovar già freddo, e dietro un muro
sottile come il secolo, altro dolore inane:


Kirill precipitato nella feccia del decimo
bicchierino, Oksana che rammenda le calze,


Boris che dorme in anticipo la lezione
di chimica di domani… – immagino soltanto


e così credo di capire, il vetro
è appannato dal mio fiato, non c'è viaggio


che porti da nessuna parte, non spirito
che soffi sotterra nell'arsura come sulle acque:


in origine era la distanza
incolmabile, vuoto siderale a riempire


la fessura tra occhio e palpebra.

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Ne avevamo bisogno.
Quando il mondo era giovane e da fare.
La voce sull'ala della cetra:
ed diventava volume, tatto, peso.
Volando, restavamo aggrappati alla terra.


Finché abbiamo udito
quello che dicevamo.
Filo di ragione per svelare a noi stessi
le forme che avevamo sbozzato.
Stupore e orrore.


Ora abbiamo capito, ma non ci interessa.
Ozio della domenica pomeriggio.
L'istupidimento del video.
Un prurito alla coscia. La parola che manca:
perdono, perdono, perdono.

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Pioppi come affollamento
al posto dell'azzurro singolare.
Tifo da stadio dei nontiscordardimé.
Applauso del ghiaino sotto le suole.
Sagra della primavera rovesciata
vuotando il sacco nota a nota
sulla tavola della sera.


C'ero.
Ma era la solita passeggiata
per cui mi sforzo di trovare
metafore a posteriori.


Invece lei. Sfrigolante di realtà
da non stare nella pelle
trentatré anni dietro a me
sullo stesso sentiero
chissà che cosa ha visto.

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