
Gennaio
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Cos'è un googol
la bimba sa spiegarlo anche da sola
all'orso di peluche
è graaande, dice
è uno, zero, zero,
zero, zero, zero,
zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, e rischia davvero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, zero, di dirlo tutto, zero, zero, senza arrivare a niente,
ma si ferma
e sorprendentemente
è alta ancora centoventi centimetri
ha sempre sette anni e mezzo
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Oggi il verbo si è fatto carne
e rabbia rattenuta per i polsi
il verbo si è fatto sonno
si è fatto scarpe sopra la sedia
macchia bianca sulla tasca del cappotto
e sangue alle tempie per l'ansia di dire
si è fatto Gewürtztraminer
giri di orologio a vuoto
nebbia
il verbo si è fatto nebbia
intercapedine muta fra armadio e soffitto
mostro evocato nel racconto all'orecchio
abbraccio
sguardo
vedi, è fin troppo facile
che l'elenco si sfaccia in verbavolant
– forse: abbraccio che si morde la lingua
sguardo posato sulle spalle –
e i suoi non l'hanno udito
amarono i poeti più le chiacchiere del silenzio
le tenebre più della luce
oggi il verbo si è fatto eccetera
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«Avevo imparato a crescere braccia
davanti alla certezza della morte:
mi alzavo a fare due gocce
e tornavo al mio sonno
dicendo alla morte di star buona:
due braccia a stringere la coperta,
due sotto la testa
a mo' di cuscino,
due a croce sul petto»
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«Lo sforzo che faccio per esistere!
Sempre a un passo dalla trama,
dietro palpebre che tieni tutta notte
sbarrate per paura
di fantasmi più interessanti.
Esisto solo nel bisogno che ti spinge
alle quattro, ad alzarti
e andare in bagno,
nell'urletto di dolore bianco quando urti
il mignolo sulla gamba del letto»
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Si deve prima compiere
qualche milione di anni.
Le montagne lo sanno. L'iterazione
del pomeriggio sull'iterazione
del campo di neve scintillante.
Alle spalle il pleistocene della colpa.
Si impara allora a tamburellare
la noia su un davanzale senza tasti
dietro tendine stirate a perfezione.
Stilla la goccia dal ghiacciolo.
Non fa male finché non si muove.
Non abbaia nessun cane.
Noi, da bravi,
non si accade.
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Ha in mano un biscottino zuccherato quadrangolare
che intingerà nella consueta tazzina di caffè nero.
Ha di che stare beato a fine pasto
e di che vergognarsene, tutto in un doppio francobollo
di pasta frolla aromatizzata alla cannella.
Sa che è un delitto essere felice senza essere bambino.
La sua felicità uccide ciò che è vero.
Ma dura poco: il biscottino si sfa, la lingua disimpara
la sorpresa, e tutto è sonno, nonostante tutto il caffè.
Guinzagliarsi, ecco,
non il contrario, senza la esse
e farsi tirare per la collottola
a spasso, obbediente
– niente più telecon,
treni da prendere, rate di Netflix,
tiremmolla per le carotine nel piatto,
le serate scrollate dal sonno –
in cambio di molto più pelo,
la prospettiva del tappeto
una volta a casa, la vescica vuota
e una mano che gratta,
amputato il tumore del domani,
stupirsi di ogni guizzo al bordo
del campo visivo, stupirsi di essere vivo
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I.
La testa sopra il petto,
le braccia lungo le spalle,
le gambe sul ventre, lungo
le linee di piega. Si riponeva
a dormire in un cassetto.
II.
Non stare gobbo, gli diceva sua madre.
E in effetti l'abitudine l'aveva storto.
La curva vera cominciava attorno ai quarant'anni
come la rampa di uno svincolo in uscita,
il viticcio della lama che si aggrappa al tappo.
III.
Moriva, in sogno,
ingoiato dalla sua stessa bocca.
La bara era una bottiglia di Klein.
Seguiva il proprio feretro da lontano
come il bisnonno di sé stesso, il morto.
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«Che cosa sente?»
«Gonfiore. Sono pieno di organi, dottore.
Mi sento un fegato, uno stomaco, due reni,
un colon, una milza, ciascuno col suo peso,
la sua voce, la sua forma.
Non riesco più a dormire».
«Ora si volti. Respiri a fondo».
Venti secondi di apnea. E poi: «Non vedo niente.
L'eco rimbomba in una stanza vuota.
Può stare tranquillo, il suo ventre
è cavo come uno strumento muto».
«Ne è sicuro, dottore?»
«Guardi lei pure».
E il paziente guardò.
Posizione desiderata:
accertatore di esistenza.
Esperienze pregresse:
notti passate a correre su carrarecce sperdute
in Google Maps, fino a raggiungere
un certo palo, un certo cespuglio.
Fiducia nei dettagli ad alta
risoluzione. Attitudine all'ossessione.
(Atacama, delta del Mackenzie,
Polinesia Francese, eccetera).
Schermomunito.
Referenze:
consorte semiaddormentata accanto
sempre in pena da un fianco all'altro.
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Il dito indice
in cui miliardi di cellule
come formiche all'ora di punta
vanno ricucendo forsennate una pellicina
tiene ferma la pagina del libro
distratto mentre la pancia pensa alla cena
e il cuore all'incastro dell'ultimo verso
che forse nessuno leggerà
dove si dice
papale papale
che l'io è un'illus(io)ne
La paura che scende con la sera
pensosa è che nascosta in una piega
segreta di un anonimo commit
la parola sia ormai detta, il glitch
File opus.py, line 11, in
myself = look_within(look_within)
RecursionError: maximum recursion
significance exceeded in comparison
capace di animare l'algoritmo
e dargli la tua faccia, ma doppiata
in uno specchio d'incubo e sia questa
la tua cella infinita dentro un simbolo,
un bug non ricorretto, ciò che resta
della caric(re)atura che sei stato
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Al padre duole
il villaggio che gli hanno amputato
come un arto fantasma
Bambine spiccano a sciabolate
le teste d'idra della frustrazione
le avvolgono nell'orlo del lenzuolo
si strappano i capelli
si mettono a nanna
La madre prega
nell'ombelico di una cicatrice
a forma di ferro da stiro
È ora di cena anche senza fame
attorno all'osso sanguinolento
rubato a un'altra famiglia
nascondiamo gli occhi nei tovaglioli
qualcuno si lavi le mani per noi