I.

Mi hanno messo in mano le pagnotte nere,
bollenti, soffici, due.
Non ho cuore di addentarle, anche se soffro.
L'innocenza a volte
resta impigliata in luoghi masticabili.

Non so che fare di questo non capire.
Lo infilerò in tasca con i guanti,
con tutte le emozioni che ho tradotto
da principiante. E ora
Sono altrove, dimentico
le pagnotte – che rimangono vere,
non riposte, da qualche parte.

Il bene è un grumo che si raffredda.

II.

Il mondo non finisce,
la tanto temuta apocalisse
è meno seria di un cambio d'armadio
a tre case di distanza,
l'urto dello schianto
fa oscillare appena
la coccinella sul gambo di cicuta:
la natura non si accorge,
l'universo mi scusa,
non sono così importante,

il mio non aver amato
è la goccia di gelato in terra
leccata via dal sole

III.

Ma la beatitudine del riordino,
del riporre le cose nei cassetti
ciascuna al proprio posto dopo
la festa o la fatica, la pace
del separare i rifiuti nei secchi
e le parole nei ricordi, del fingere
vittoria sull'entropia e andarsene
dalla stanza vuota spegnendo la luce:

che importa se anche illude?
Stendersi sotto un banale
lenzuolo finalmente in pace
con il mondo (anche solo un mondo
della mente) – a chi fa male?

IV.

A me piaceva tutto quel bianco
a contorno, che era non sporcare,
non dire troppo

(proprio il contrario
di ciò che mi sapevo bravo a fare)

mi piaceva la sforbiciata
diseguale del confine,
il rimpallo obliquo degli accenti
tra due pareti mobili, la parola

singola che pendeva
dall'orlo senza cadere –

la scelta, quella mi piaceva
che io sapevo perfetta
prima che chiunque la leggesse –
ma mi amavo, allora,

e l'universo aveva futuro
su tutti i lati e soprattutto
dopo l'ultimo punto

.

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